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Art through Fashion: the Roman Empire and its founder, Augustus / L'Arte attraverso la Moda: Roma e il suo primo imperatore, Augusto

Particolare sul lato settentrionale dell’Ara Pacisraffigurante i Septemviri con indosso la toga fusa.



Il principato di Augusto si aprì all’insegna della volontà di distanziarsi il più possibile da quelle che erano state le caratteristiche preminenti di Marco Antonio (suo acerrimo avversario politico), che aveva scelto di associare la sua figura a culti e usanze tipicamente orientali. Usanze che avevano trovato larga diffusione nell’ultimo periodo della Repubblica, scatenando l’indignazione in campioni della romanità, come ad esempio Cicerone.
Secondo Augusto, il modo migliore per attuare la cancellazione definitiva delle caratteristiche ellenistiche, che nell’immaginario collettivo si ricollegavano a forme di governo mal sopportate, era richiamarsi esplicitamente al concetto di mos maiorum, ai valori ad esso connessi e all’immagine idealizzata dei tempi della Roma più antica.
Per questo, infatti, l’arte del periodo augusteo si caratterizzò per stilemi e linguaggi tipicamente classicisti, così che potesse diventare espressione del vasto progetto di rifondazione politica, ideologica e culturale dello Stato romano basata su una precisa opera di “moralizzazione” della vita individuale.
Augusto però non agì soltanto attraverso mezzi artistici e culturali (fruibili cioè solo dalle poche persone che possedevano cultura sufficiente) ma adottò anche strategie che dessero frutti nell’immediata quotidianità di ogni abitante di Roma, ossia ricorse all’introduzione di una nuova moda vestimentaria.


Statua di Augusto capite velato da Via Labicana, Roma, Museo Nazionale Romano.


Elemento cardine di quest’ultima fu la toga, un indumento scomodo ma di grande rilevanza a livello nazionale. Questo significava che, per Augusto, la praticità poteva essere messa in secondo piano rispetto a una necessità politica. Significava, quindi, che, per cambiare la sostanza, l’imperatore utilizzò anche la forma, che la modificazione di Roma passò anche attraverso i vestiti.
La Moda infatti è un fenomeno connotato da una forte artificialità, volta alla modificazione del corpo umano: gli elementi che la costituiscono sono sempre espressioni semiologiche foriere di una significazione ed essi conferiscono alla Moda l’identità di sistema comunicativo a tutti gli effetti, dotato di un proprio codice e capace di influire sulla quasi totalità degli ambiti della pratica e del pensiero umani.
Il Costume, invece, è una struttura che si fonda sull’appropriazione da parte della società di un uso o di una forma, e sul suo asservimento ad un insieme di norme collettive che ne determinino le regole, tra cui anche quelle di fabbricazione. È una vera e propria istituzione sociale, accomunabile alla langue saussuriana[1].
Chiaramente Moda e Costume da soli, per quanto siano sistemi complessi che accompagnano l’uomo fin dalla notte dei tempi, non bastano a tracciare il quadro generale di una società o di un periodo storico, ma di certo ne costituiscono una delle possibili chiavi di lettura, dato che istituiscono una linea di demarcazione fra presente e passato, comunicando un certo sentimento dell’attualità. Sono quindi un riflesso del presente. Ed è per questo che l’età augustea fornisce l’esempio più evidente di come si possano utilizzare l’abbigliamento e le tendenze per fini politici e morali e di come questi attecchiscano, trasformando un intero impero.
E se teniamo anche conto del fatto che le «mode sono sempre mode di classe»[2]e che la popolazione ne coglie alcune persino in modo spontaneo solo per desiderio di imitare la classe dominante, risulta evidente che, per Augusto, non fu complicato indirizzare il popolo romano verso la moda da lui auspicata. Anche perché, come ogni nuova moda o tendenza, quella proposta da Augusto non nacque dal nulla, ma fu una riscoperta di fenomeni passati (nello specifico quelli dell’età arcaica).
In quest’ottica, dunque, non stupisce nemmeno la scelta compiuta da Augusto stesso in fatto di abbigliamento: Svetonio ricorda infatti che il princepsvestisse ancora «abiti fatti in casa, dalla moglie, dalla sorella, dalla figlia e dalle nipoti; toghe né scarse né abbondanti, fregi non larghi ma non stretti»(Aug. 73).
Una scelta che si basa, come già ricordato, sull’indumento che aveva carattere nazionale e che da sempre individuava il civis romanus, ossia la toga che: era (e rimase sempre) la vestis forensis dell’uomo con diritto di cittadinanza, il quale la doveva portare obbligatoriamente sia in pubblico che in casa; era l’indumento per eccellenza della rispettabile matrona romana; aveva valenza di “abito di pace” (tant’è vero che ai soldati era proibito indossarla).

Da destra: Romano in toga, giovane Romano con toga e bulla al collo, oratore in toga. Illustrazioni di Thomas Hope (Costumes of the Greeks and Romans, 1962).


Giovane togatus di Ostia, soprintendenza per i Beni Archeologici di Ostia.


Nella letteratura antica sono pochissime le opere monografiche o le descrizioni approfondite di capi di abbigliamento, ed è per questo che persino l’origine della toga, che è appunto il capo fondamentale della romanità, non è ben chiara: Nista la ritiene un’invenzione totalmente romana; Laver invece crede derivi dall’abito tradizionale etrusco.
Comunque sia, Orazio (Sat. I, 3) ci ricorda come la toga (sia pure rozza) fosse uno degli elementi essenziali che avrebbero assicurato una vita dignitosa a qualsiasi cittadino romano (assieme ad un tavolo a tre piedi e un cucchiaio di sale fino).
La toga, generalmente, veniva indossata sopra la tunica exterior (in lino o lana, con buchi per braccia e testa), che a sua volta stava sopra la tunica interior (in lino) e il subligaculum (intimo). Sopra la toga poteva essere indossato un mantello (ma non il pallium, che era invece il sostituto grecizzante della toga, bensì la lacerna, la paenula o la caracalla).
La toga tipica dell’età augustea (detta toga fusa) si caratterizzava, rispetto a quella repubblicana (detta toga exigua), per alcune modifiche non troppo sostanziali: l’utilizzo di una maggior quantità di tessuto (era infatti più lunga e più larga); la presenza del sinus corto (un drappeggio che partiva da dietro la spalla destra e arrivava davanti quella sinistra, coprendo solo la coscia destra); il balteus, che in età repubblicana era stato una specie di cintura, non passava più sotto la spalla destra ma sopra (come si può vedere in alcune figure sui bassorilievi dell’Ara Pacis); venne introdotto l’umbo; infine, non sappiamo se l’orlo da tendenzialmente rettangolare avesse subìto anch’esso una modifica andando incontro ad un leggero arrotondamento.
Ma bisogna precisare che durante la fase tardo repubblicana la toga aveva iniziato a perdere terreno in favore del pallium (il mantello di origine greca), indumento di carattere filo greco generalmente ritenuto più comodo e facile da indossare. È dunque significativo che lo strumento di coesione del nuovo impero fosse quello a carattere assolutamente romano ma ritenuto scomodissimo dagli stessi detrattori del pallium. Quello di Augusto fu un tentativo (per altro riuscito) di controllare la cultura, i costumi e la società attraverso mezzi che andavano anche contro la praticità.
Ad ogni modo, la forma base della toga da allora non subì grosse variazioni, se non alcuni cambiamenti nella lunghezza (della lacinia, il lembo che copriva il ginocchio sinistro, dell’umbo e del sinus), nella larghezza (del balteus) e nei drappeggi (la contabulatio dell’umbo).


Particolare della statua di Cornelia Antonia in veste di Pudicitia, II sec. d.C., Istanbul, Museo Archeologico Nazionale.

Adlocutio. Particolare del rilievo dell’Arco di Portogallo, Roma.

Sulla sinistra, un privato con indosso il pallium; sulla destra, un uomo politico con la toga. Particolare del Sarcofago dei Fratelli, 250 d.C., Museo Archeologico Nazionale di Napoli.


Infine, si può notare come la toga costituisca l’esempio perfetto per dimostrare che la moda è sempre semiotica, dato che essa è, sì, un “oggetto” materiale che ha lo scopo pratico di coprire e riparare, ma altresì fornisce informazioni riguardo chi la indossa: la fattura e la foggia tradiscono il ceto o la regione di appartenenza; il colore rimanda a momenti di vita politica (ad es. la toga candida, indossata in caso di candidatura pubblica), di lutto (la toga pulla) o a una particolare funzione dell’individuo (ad es. la toga praetexta indossata dai senatori e dalle prostitute); la lunghezza tradisce l’età (come dimostra la toga virilis, conseguita dai ragazzi al compimento dei 14-16 anni), il potere (la toga purpurea, ad esempio, era indossata solo da personaggi di altissimo rango), il lavoro o la disponibilità da un punto di vista sessuale (es. le meretrices avevano un abito più corto rispetto alla stola delle rispettabili matrone).






[1] Barthes, R., Il senso della moda, forme e significati dell’abbigliamento, trad. it. Torino 2006, p. 15.
[2] Monneyron, F., Sociologia della moda, trad. it, Bari 2008, p. 35.

Art through Fashion: Frida / L'Arte attraverso la Moda: Frida


Che aspetto avrebbe avuto Frida Kahlo, l'artista messicana vissuta nella prima metà del Novecento, oggi? Come si sarebbe evoluto il suo stile iconico? Quali accessori avrebbe scelto di indossare? Grazie a Diletta (e a Rossano, che ci ha concesso di utilizzare questa fantastica location umbra), ho provato a immaginare una risposta alle domande di cui sopra attraverso quattro diversi outfit liberamente ispirati alla figura e alle opere di Frida Kahlo.



Model: Diletta Vedovelli (http://www.dilettavedovelli.actor/)

Location: Villa Volumnia (http://www.domusvolumnia.it/)



outfit #1 – Lace top: H&M  ||  Skirt: Dolce&Gabbana  ||  Butterfly hair clips: Asos  ||  Shoes: Liu Jo.
outfit #2  Dress: Lunatic  ||  Trousers: Aqua by Aqua  ||  Earrings: Il Pizzo Cotto.
outfit #3 – Butterfly hair clips: Asos  ||  Earrings: "Frida Kahlo" limited edition (via Scuderie del Quirinale)  ||  Necklace: Libreria Grande  ||  Scarf: handmade  ||  Bustier: Asos.
outfit #4 – Earrings: "Frida Kahlo" limited edition (via Scuderie del Quirinale)  ||  Blouse: Germano Zama.





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Frida Kahlo shot by Nickolas Muray.
Self-portrait with thorn necklace, Frida Kahlo, 1940. 
Skull drawing by MilkyName (via Deviantart)
Self-portrait with braid, Frida Kahlo, 1941.

Art through Fashion: Cretti / L'Arte attraverso la Moda: Cretti

Left: Balenciaga Fall 2013-14 fashion show || Right: detail of the Cretto bianco - Alberto Burri


Nel corso della storia del brand, Maison Martin Margiela ha più volte proposto giacche in pelle crepata, pantaloni e stivali in tessuti simili alla carta pitturata e poi lasciata essiccare. L’inverno scorso è stato il turno di Balenciaga che, con i suoi top in maglia dipinta, ha sancito l’inizio di un vero e proprio trend sfoggiato dalle fashioniste di tutto il mondo. Zara, Asos e altre aziende di abbigliamento low cost, poi, non si sono lasciate sfuggire quest’occasione e hanno proposto la loro versione di questi capi scrostati.
Il fascino esercitato dalle superfici “crettate” ha di certo natura ancestrale ed evoca sensazioni che spesso sono tutt’altro piacevoli, come ad esempio quelle legate alla visione di paesaggi aridi e brulli, terreni desolati e riarsi dalla calura del sole. Superfici del genere, una volta inserite in elementi di vestiario, denotano un certo passare del tempo e la conseguente usura, ma è anche vero che esse sono un perfetto mezzo artistico per esternare la propria filosofia e visione della vita o per compiere un ritorno all’origine della materia, alle basi del design o della pittura. E forse non è un caso che ben due periodi della produzione di uno dei più grandi artisti umbri del Novecento, Alberto Burri, noto in tutto il mondo per il suo approccio assolutamente informale e per la sua volontà di rifiutare etichette, siano dedicati proprio a queste superfici.



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Cretto G 1 - Alberto Burri

Balenciaga Fall 2013

Zara Fall 2013

Burri nacque a Città di Castello (in provincia di Perugia) il 12 marzo 1915, si laureò in medicina e lavorò come ufficiale medico in Tunisia, dove fu catturato per poi essere spedito nel campo di Hereford. Nel ’46 fece ritorno in Italia, abbandonò la carriera medica per dedicarsi interamente alla pittura.
I suoi primi soggetti, nei primi anni ’50, furono i Sacchi, costituiti sulla base di quei sacchi di juta con i quali aveva avuto grande familiarità durante la prigionia in Texas. Dal ’57 in poi, invece, presentò diverse serie realizzate con l’ausilio del fuoco (i Legni, le Plastiche e i Ferri) nelle mostre statunitensi, come ad esempio quella tenutasi all’Oakland Art Museum in California.
E finalmente, con l’arrivo degli anni ’70, Burri si dedica a soluzioni monumentali per le quali abbandona il fuoco, i mezzi tecnici e accessori (come i sacchi di juta, il legname, i metalli e la plastica di vario genere) per fare ritorno agli elementi fondanti e fondamentali dell’arte pittorica: la tela, il colore e i materiali di origine terrosa. Nel 1973 realizza il Cretto Bianco e il Grande Cretto Bianco per poi proseguire con la sua produzione fino al 1976, quando la abbandona quasi completamente a favore dei Cellotex.
La tecnica adottata da Burri per realizzare i Crettiprevedeva un impasto di bianco di zinco e colle viniliche (al quale si possono aggiungere terre per ottenere una colorazione diversa dal bianco) da stendere su un supporto in cellotex per poi essere lasciato ad essiccare. Man mano che le dimensioni delle sue opere crescevano, però, Burri dovette anche cambiare l’impasto di partenza, aggiungendo il caolino e utilizzando il vinavil solo dopo la conclusione del processo di asciugatura.
Lo scopo dell’artista era quello di evocare l’idea del trascorrere inesorabile del tempo, di proporre una nuova compostezza dell’arte e, soprattutto nel caso dei Cretti bianchi, di affidare l’espressività dell’opera unicamente alla sua tramatura, senza l’aggiunta di altri colori dopo l’essiccatura.

Opere tanto basilari e severe, come erano appunto i Cretti, potevano di certo offrire applicazioni pratiche, ad esempio nel campo dell’impegno sociale. Fu così, infatti, che, nei primi anni ’80, dopo un periodo dedicato interamente aiCellotex, Burri riprese per la seconda volta la produzione dei Cretti, raggiungendo un livello di monumentalità del tutto inusitato con la realizzazione del gigantesco Cretto di Ghibellina.
La siciliana Ghibellina, gemellata con Città di Castello, fu vittima del terremoto della notte tra il 14 e il 15 gennaio 1968, che la devastò tanto profondamente che la riedificazione non poté avvenire sul sito della vecchia città ma una ventina di kilometri più a valle. Il Cretto di Ghibellina – straordinario esempio di land art, nonché austero monumento in ricordo della sofferenza umana – venne concepito come una sorta di immenso sudario di cemento con il quale rivestire i resti di una tragedia che molto aveva in comune con l’idea di base dei Cretti di Burri: non era stato il fuoco a piegare la materia e a distruggere la città, ma la terra che si era spaccata. L’impresa artistica di Burri iniziò nel 1985 con l'intenzione da parte dell’artista di coniugare due momenti: quello precedente la distruzione (che doveva essere ottenuto tramite la restituzione di una parvenza dell'antico centro abitato di Ghibellina – motivo per cui le fenditure vennero progettate e realizzate abbastanza larghe e profonde da ricordare vie e piccole strade) e quello del attimo in cui la città veniva effettivamente sconquassata dal terremoto (reso grazie alla trama dell’opera).
La costruzione del Cretto di Ghibellina, tuttavia, venne interrotta nel 1989 e il monumento commemorativo non fu mai ultimato, dal momento che Alberto Burri morì a Nizza il 13 febbraio 1995.

Il cretto di Ghibellina - Alberto Burri

Marni Fall 2013

Maison Martin Margiela jeans

Maison Martin Margiela paper like pants and shoes - Spring 2010 

3.1 Phillip Lim Spring 2014

Maison Martin Margiela x Converse

Insta_Photodiary #3

Immagini della Pasqua 2014 e il gattino realizzato durante lo Workshop della Thun (che trovate QUI).


Il diario fotografico di Aprile, ricostruito attraverso gli scatti pubblicati su Instagram.



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Aperitivo con le amiche, nuovi acquisti, OOTD e gastronomia. Trovate la ricetta della crema al caffè QUI e il post dedicato a Lemmi Donna QUI.

Una foto di Francesca tratta dal post outfit "Strolling" (QUI), fiori sbocciati ad Assisi, una mia foto in attesa dello Workshop Thun (QUI), uno dei ritratti più belli di sempre di Vivienne Westwood, Vivì e il suo look firmato Valentino (QUI), nuovi acquisti, oggetti in vendita da Lemmi Donna (QUI), le scarpe dei desideri e, infine, un'altra foto di Francesca (QUI).


Infine, una foto a parte va riservata alla caricatura che ho realizzato per Serena de "Il Pizzo Cotto" e che lei ha apprezzato a tal punto da appenderla in un posto d'onore nella sua casa tedesca.


SHOPPING IN UMBRIA #3: Lemmi Donna


Dopo il successo dell’anno scorso, con l’evento alla Rocca Paolina in occasione della Pasqua, sapere che le creazioni di Serena sarebbero sbarcate a Perugia in pianta stabile mi ha resa incredibilmente felice. Scoprire poi che a mettere in vendita gli orecchini de “Il Pizzo Cotto” sarebbe stato uno dei negozi Lemmi ha davvero aggiunto qualcosa in più alla notizia.

Quest’azienda, fondata nel 1948 dal maestro della sartoria Augusto Lemmi, vanta infatti una lunga storia contraddistinta dal sempre ineccepibile gusto e dalla più profonda attenzione per i dettagli. Ma non lasciatevi spaventare: Lemmi Donna non è la solita boutique ingessata e anacronistica, tutt’altro!
Il negozio, ricco come un bazar a tinte pastello e arredato con lo stile di una raffinata capitale europea, si regge, sì, sulla personalità elegante di Antonella, figlia di Augusto, e sulla grande cordialità dello staff; ma il suo vero punto di forza è l’idea da cui è nato: dimenticatevi i cataloghi da sfogliare annoiate, dimenticate gli stand pieni di abiti in serie che vedrete addosso a tutte, dimenticate anche il concetto di negozio monotematico. Quella che Lemmi Donna offre è un’esperienza di shopping a tutto tondo: abbigliamento, borse e clutch, idee regalo, oggettistica, complementi d’arredo, accessori da tavola, gioielli, opere d’arte e d’artigianato. La filosofia della boutique è di proporre articoli non convenzionali, pezzi unici frutto di un’accurata ricerca in giro per l’Italia. Era naturale, quindi, che la scelta cadesse anche sulle creazioni di Serena, originaria di Montepulciano, e del suo Pizzo Cotto.

Colori vibranti, profumi delicati, elementi vintage e altri estremamente contemporanei si fondono insieme per creare un luogo dove non vedrete l’ora di fare ritorno e acquisti. Vi lascio ora alle foto che ho scattato e che ritraggono alcuni dei dettagli che più mi hanno colpita. Altre arriveranno poi su Instagram e sulla pagina Facebook.
Buona visione!


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Lemmi Donna è all'ingresso del centro storico di Perugia, in Via Masi 6.
Si trova proprio davanti al Sangallo Palace Hotel e a Piazza Partigiani.
Tel. 075 57 266 42 || e-mail: info@lemmidonna.com

Potete anche visitare il sito internet del negozio QUI.